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Una scusa per scappare. Il coraggio di restare.


Quando tutto si è fermato, Andrea ha iniziato. A Ponza

A sentirlo parlare, sembrerebbe quasi non abbia fatto niente. Un ragazzo qualunque, direbbe lui. Stava bene a Milano, con gli amici, i locali, la bici per andare ovunque e i take away a ogni angolo. Dopo il liceo scientifico, aveva trovato lavoro in un museo a distribuire audioguide. Un impiego tranquillo. Un contratto. Un badge.

Milano ha tutto. Anche la fila per entrare in palestra alle sei del mattino. Ha i navigli, i brunch con l’avocado, le call da coworking con vista finta su Central Park. Bella Milano, eh… però vuoi mettere svegliarti con l’odore del mare e le pinne ancora bagnate sulla porta di casa?

Sembrava tutto a posto. Solo che no, non lo era affatto.

Perché se hai passato le estati della tua giovinezza tra un brevetto e un tramonto, con la muta ancora umida e le mani che sembrano albicocche secche, con quel misto di neoprene e salsedine sotto le unghie che non va via neanche a settembre.

Ti resta per forza tutto dentro. Ti resta nei gesti. Nel modo in cui guardi l’orizzonte, anche in città.

Nel 2019 aveva preso un aereo per la Thailandia. Aveva trovato una scuola diving che, d’inverno, forma istruttori nei mari caldi. Aveva cominciato da ragazzino, quasi per gioco, con il primo brevetto. Poi un altro e un altro ancora. E ad un certo punto non si è più fermato. Non sa nemmeno lui perché. Forse semplicemente perché il mare non ti chiede spiegazioni: ti prende, e basta.

A Milano aiutava un diving locale nei laghi. Faceva il suo, senza grandi pretese.

Poi è arrivato il Covid e tutto si è fermato. Stare chiuso in un appartamento, da solo, con la città immobile? Uno come lui? Era fuori discussione.

Ha sentito qualcosa dentro muoversi come un’onda lunga. E ha capito. Doveva scappare.

Dove? Dove il mare lo chiamava per nome da quando era bambino.

A Ponza.

La meta della sua famiglia d’estate era lì. I ricordi anche. Quel padre che da piccolo lo portava sott’acqua. L’alternanza scuola-lavoro fatta in un diving che oggi è la concorrenza. Una casa. Un gommone. Qualche attrezzatura lasciata in prestito. E una scusa per andarsene da Milano: “Devo aprire un diving.” Lo disse quasi ridendo, tanto per vedere se funzionava. E funzionò. Al punto che ora ha un compressore e dieci mute stese al sole.

Cominciò a chiamare gli amici, quelli di sempre, quelli che ogni estate facevano un salto a Ponza. Poco a poco arrivarono. Qualcuno lo aiutava, qualcuno prendeva un brevetto, tutti restavano un po’ più del previsto.

E nell’estate del 2020, quando tutti cercavano isole “Covid-free”, Andrea si ritrovò al centro di un piccolo miracolo. Odissey Diving Ponza non era più solo una scusa che profumava di libertà. Era un sogno che si stava facendo concreto. Con i piedi a mollo e il cuore pieno.

Oggi il diving è piccolo, sì. Gruppi da massimo dieci persone per volta. Ma se serve, si organizza. Un doppio turno, un secondo gommone da recuperare, qualche telefonata agli amici giusti.

Quanta bellezza. C’è Michela ad aiutarlo, all’inizio non voleva immergersi con le bombole, temeva che le togliessero quella sensazione di libertà che aveva sempre trovato nell’apnea. Poi ha scoperto che, anche con l’attrezzatura addosso, si può respirare piano e sentirsi leggeri
Amante della natura, oggi guida i gruppi con calma e curiosità. Dove gli altri vedono solo sabbia o scoglio, lei scova un mondo in miniatura: un gamberetto nascosto, una posidonia che cresce, un piccolo equilibrio che vale la pena osservare. E nei briefing racconta ogni dettaglio con l’entusiasmo di chi il mare lo vive, più che spiegarlo. 

Ogni tanto arrivano studenti o biologi già formati, spesso per una tesi o uno studio specifico. Lui li accompagna volentieri, li porta nei punti giusti, li aiuta a osservare. Gli piace che il diving possa servire anche a questo. E in futuro, vorrebbe dare sempre più spazio a progetti legati alla biologia marina e alla conservazione.

Perché la cosa che gli dispiace di più è vedere il mare trattato solo come una banca da cui prelevare soldi. A Ponza non esiste ancora un’area marina protetta, e troppo spesso la bellezza viene usata senza essere capita. Lui sogna di cambiare questo sguardo. Un’immersione alla volta.

Nel frattempo, si organizza per tutto: anche per accompagnare gruppi di apneisti, quando serve. Ci sono appartamenti convenzionati al diving, con un grande spazio all’aperto dove ritrovarsi la sera, cucinare qualcosa insieme, raccontarsi la giornata. Perché alla fine non è solo questione di mare.

C’è chi lavora in cambio di un brevetto. Chi per un’idea di futuro diverso. Chi solo per passare un’estate in compagnia, con le mani occupate e l’anima leggera.

La sera si cena insieme all’aperto. Si ride, si parla. Si dà consigli su cosa vedere, dove camminare, con che vento partire.

Si racconta Ponza.

Perché, qui con loro, il lavoro non è solo acqua. È anche terra, persone, lentezza. E un senso di comunità che, in città, si vede a volte solo nel weekend, qui invece è tutti i giorni.

Andrea ha 24 anni. Ha costruito tutto un tassello alla volta.

E non ha mica smesso, anzi è solo all’inzio. Non ha ancora una barca grande né uno staff numeroso. Ma ha una filosofia: prima le persone, prima i rapporti umani quelli veri e poi il resto.

Dice che non si guadagna molto. Che è dura, che le risorse sono poche, che ogni anno si aggiunge lentamente solo un piccolo tassello.

Ma quando gli chiedo di raccontarmi qualcosa, lui mica parla di numeri. Parla del giorno in cui ha visto le balene. Dei delfini che saltavano accanto alla barca. Dei bambini che urlano di entusiasmo appena mettono la testa sott’acqua. O di quel signore di ottant’anni che, per la prima volta, ha deciso di immergersi.

E allora capisci tutto. Perché chi lo vede tornare dal mare, coi capelli bagnati e gli occhi pieni di luce, lo sa che non è vero.

Lui, qui, sta guadagnando tutto.

Forse, senza il Covid, non lo avrebbe fatto. Forse sarebbe rimasto a Milano, comodo e ordinato. Ma il mare chiama in modi strani. E a volte serve una pandemia per tornare a respirare davvero.

All’inizio sull’isola lo chiamavano “il Milanese”. Lo chiamano così ancora oggi. E forse lo chiameranno sempre così. Non tutti lo hanno davvero accettato. Qualcuno ancora lo guarda come se fosse “di passaggio”. Ma a lui non importa. Continua a raccontare Ponza con ogni immersione, ogni video, ogni parola.

Lui si rincuora, dice. Perché in fondo, anche se lo chiamano ancora “il Milanese”, qualcosa sta cambiando.

Un po’ alla volta, infatti, il suo accento si sta perdendo. E forse, è già diventato parte dell’isola. Come il sale sulla roccia. Come il vuoto silenzioso d’inverno, che solo le isole sentono. Come le grida di felicità che esplodono d’estate.

E capisci che il mare non ti ha mai davvero lasciato. È rimasto lì, nascosto sotto la pelle. A farsi sentire ogni volta che la vita ti stringe troppo. A ricordarti che c’è un posto dove si respira davvero.

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